Il Giardino delle Menzogne XIII-XVI

Lettera XIII

9 giugno 1916

Zona di guerra

Mia cara mamma,

ho riflettuto a lungo sulla giornata che è appena finita e mi ritrovo ora in un crinale boscoso, a scriverti queste tristi righe. Le membra sono così stanche che a malapena riesco a reggere la penna. In verità il maggior problema sono gli occhi; il dolore che essi mi provocano è insopportabile. La causa è semplice: troppe ore senza sonno. Da due giorni non riesco a trovare il tempo per dormire, prima per l’attesa, poi per i combattimenti e le cannonate. I fumi ed i gas delle artiglierie, inoltre, colpiscono proprio la vista oltre che l’udito ed i polmoni. Non ho nemmeno più fiato dunque; troppe le urla che dalla mia gola arsa sono uscite e troppe lacrime, non solo per le esalazioni. Ho visto cose indicibili e sono stato sull’orlo dell’abisso.

A tutto vi è un termine. Anche alla speranza. Non potrò mai più tornare, mamma, il ragazzo che hai cresciuto. Mi sono perduto in queste montagne che hanno visto passare mille inverni, tutti uguali, sulle loro cime. Da ora, tutto è cambiato per sempre.

A cosa sono servite le lezioni di piano, alle quali tanto tenevi? A cosa le letture e le poesie alle quali mi hai avvicinato? Solo il pensare alla quiete del mondo al quale appartenevo mi lacera il cuore. Qui sono solo, contro prove insuperabili, perfino ai più forti. Chiedete a casa, ai soldati che arrivano in licenza. Essi non vi diranno nulla di preciso, ma sarà facile, per chi come te è madre, cogliere un calvario dietro a quei silenzi.

A pochi metri da me, stanno allineate le croci delle sepolture provvisorie dei miei compagni, caduti in questi giorni tra queste foreste incantevoli, bagnate dai ruscelli della neve in disgelo e animate dal canto delle migliaia di uccelli che ancora non sono fuggiti. Fra cent’anni, chi leggerà i loro nomi, non saprà quanta vita c’era dietro ad ognuno di essi. Ma so per certo che sapere la loro età, farà tremare molte coscienze:  ventuno, diciannove, ventitré, sedici anni. Quale vita, questi giovani, hanno avuto come grazia di Dio? Quale futuro le loro famiglie? Se tutto ciò dovesse risultare vano e queste terre, un giorno, cadessero in mano nemica, quale senso al loro sacrificio? Forse una ragione valida c’è: sono morti nel compimento del loro dovere, verso quella Patria che ora non identifico più come un qualcosa di indefinito, ma come la vita di tutti i giorni, fatta di lavoro, gioie, difficoltà, dolore, incomprensioni, sogni, aspettative. Il tutto per la propria famiglia, nella propria terra natia.

Forse allora tutto questo vale anche per i nemici. Coloro che domani dovrò affrontare nuovamente. Quelli che dovrò uccidere. Con ogni colpo della mia carabina, distruggerò un progetto, abbatterò una promessa.

Non vedo più gli altri come il male contro il quale scagliarsi. Quell’immagine era il frutto di un odio covato per anni da altri. Persone che io non ho mai conosciuto e che ci hanno dato il gravoso incarico di manifestarlo. Forse adesso i Signori della Guerra se ne stanno a sorseggiare del buon vino in un castello a decine di chilometri dalle nostre posizioni e non sanno che qui siamo tutti uguali: vincitori e vinti, siamo tutti poveri, stanchi e fragili, nonostante le armi ed il nostro aspetto da guerrieri.

Si, so che questo è anche il pensiero degli uomini che domani affronterò in battaglia, degli italiani.

Addio mamma, non dimenticarmi mai.

Lettera XIII

9 giugno 1916

Zona di guerra

Mia cara mamma,

ho riflettuto a lungo sulla giornata che è appena finita e mi ritrovo ora in un crinale boscoso, a scriverti queste tristi righe. Le membra sono così stanche che a malapena riesco a reggere la penna. In verità il maggior problema sono gli occhi; il dolore che essi mi provocano è insopportabile. La causa è semplice: troppe ore senza sonno. Da due giorni non riesco a trovare il tempo per dormire, prima per l’attesa, poi per i combattimenti e le cannonate. I fumi ed i gas delle artiglierie, inoltre, colpiscono proprio la vista oltre che l’udito ed i polmoni. Non ho nemmeno più fiato dunque; troppe le urla che dalla mia gola arsa sono uscite e troppe lacrime, non solo per le esalazioni. Ho visto cose indicibili e sono stato sull’orlo dell’abisso.

A tutto vi è un termine. Anche alla speranza. Non potrò mai più tornare, mamma, il ragazzo che hai cresciuto. Mi sono perduto in queste montagne che hanno visto passare mille inverni, tutti uguali, sulle loro cime. Da ora, tutto è cambiato per sempre.

A cosa sono servite le lezioni di piano, alle quali tanto tenevi? A cosa le letture e le poesie alle quali mi hai avvicinato? Solo il pensare alla quiete del mondo al quale appartenevo mi lacera il cuore. Qui sono solo, contro prove insuperabili, perfino ai più forti. Chiedete a casa, ai soldati che arrivano in licenza. Essi non vi diranno nulla di preciso, ma sarà facile, per chi come te è madre, cogliere un calvario dietro a quei silenzi.

A pochi metri da me, stanno allineate le croci delle sepolture provvisorie dei miei compagni, caduti in questi giorni tra queste foreste incantevoli, bagnate dai ruscelli della neve in disgelo e animate dal canto delle migliaia di uccelli che ancora non sono fuggiti. Fra cent’anni, chi leggerà i loro nomi, non saprà quanta vita c’era dietro ad ognuno di essi. Ma so per certo che sapere la loro età, farà tremare molte coscienze:  ventuno, diciannove, ventitré, sedici anni. Quale vita, questi giovani, hanno avuto come grazia di Dio? Quale futuro le loro famiglie? Se tutto ciò dovesse risultare vano e queste terre, un giorno, cadessero in mano nemica, quale senso al loro sacrificio? Forse una ragione valida c’è: sono morti nel compimento del loro dovere, verso quella Patria che ora non identifico più come un qualcosa di indefinito, ma come la vita di tutti i giorni, fatta di lavoro, gioie, difficoltà, dolore, incomprensioni, sogni, aspettative. Il tutto per la propria famiglia, nella propria terra natia.

Forse allora tutto questo vale anche per i nemici. Coloro che domani dovrò affrontare nuovamente. Quelli che dovrò uccidere. Con ogni colpo della mia carabina, distruggerò un progetto, abbatterò una promessa.

Non vedo più gli altri come il male contro il quale scagliarsi. Quell’immagine era il frutto di un odio covato per anni da altri. Persone che io non ho mai conosciuto e che ci hanno dato il gravoso incarico di manifestarlo. Forse adesso i Signori della Guerra se ne stanno a sorseggiare del buon vino in un castello a decine di chilometri dalle nostre posizioni e non sanno che qui siamo tutti uguali: vincitori e vinti, siamo tutti poveri, stanchi e fragili, nonostante le armi ed il nostro aspetto da guerrieri.

Si, so che questo è anche il pensiero degli uomini che domani affronterò in battaglia, degli italiani.

Addio mamma, non dimenticarmi mai.

Lettera XIV

10 giugno 1916

Zona di guerra

Spero che questa mia, giunga con la posta privata, che il cappellano militare ha finora inoltrato per me, riuscendo ad eludere la censura.

Stamane alle 6:00, ultima messa prima di prendere posizione in Val Magnaboschi, dove pare, i nemici stiano preparando la controffensiva. L’euforia per l’avanzata, che probabilmente a casa avete respirata, verrà scuramente mitigata dalla notizia che ci è giunta poco fa. L’intero fronte ripiegherà su posizioni più difendibili poiché il paventato sfondamento non c’è stato. I russi avanzano nei nostri territori ad est dell’impero ed i migliori reggimenti dell’esercito sono già stati, in tutta fretta, inviati a proteggere i confini in Galizia. Quale destino attenda il mio reparto, ancora non lo so. I miei uomini non parlano da giorni ed ora sono intenti a preparare gli armamenti per la battaglia che ci attende. Dopo giorni di avanzate, adesso scaviamo trincee appena abbozzate e aspettiamo l’attacco.

Ho fatto preparare il mio bagaglio nel traino che oggi riparte per la piana di Vezzena e da lì, poi, per Trento. La breve licenza che dovevo avere ad aprile, parte da domani e se Dio vorrà, ci rivedremo. Ieri ho preso congedo, da nostra madre, con un ultimo foglio dall’Altopiano. Nello scriverti, voglio farlo anche con te. Non sono in grado però, questa volta di darti alcun consiglio o indicazione, come in questi anni ho sempre fatto, da buon fratello maggiore. Ho visto crollare, una dopo l’altra, tutte le mie certezze e riesco, ora, solo ad interrogarmi sulla erronea convinzione che avevo, nel sentirmi così forte e sicuro.

Chi ha visto la guerra sa a cosa mi riferisco.

Circa una settimana fa ho raggiunto, con un gruppo di prigionieri, un vicino posto di medicazione del Sovrano Ordine di Malta. Siamo giunti alle baracche alle due di notte e l’intero ospedaletto era in piena attività. Uomini stipati in ogni dove aspettavano le prime cure. Dalle barelle, poste serrate l’una affianco l’altra, salivano gemiti e lamenti penosi. Ho visto, con i miei occhi, medici che operavano da settanta ore di fila e fuori dalla sala asettica, un enorme cumulo di gambe e braccia, tutte amputate per il flemmone. Vicino l’ingresso, due giovani infermiere. Pulivano, in un ruscello, delle bende sudice, per poterle riutilizzare sui nuovi pazienti. Quelle povere ragazze, stanche morte e con i camici imbrattati del sangue dei soldati, parlavano di Vienna e di come, una volta tornate, volessero godere di una giornata intera solo per se stesse. Bere ad un caffè, ridere al sole, dormire in pace.

Troppo spesso, quando ero a casa, non ho saputo capire o vedere il bello che mi circondava. Ti ricordi quando zia Greta ci portava i dolci delle feste? Il vassoio in un lampo si svuotava, e con le tasche ricolme di caramelle ci lamentavamo di non averne abbastanza! E poi le corse sui prati, gremiti di fiori, le serate al capitello, in maggio, dopo il rosario, la pesca sul lago con la barca a remi, le gioie, le risate… Non lasciare che portino via tutto questo anche a te.

La vita vera va vissuta per costruire, non per distruggere.

Tuo fratello.

Lettera XIV

10 giugno 1916

Zona di guerra

Spero che questa mia, giunga con la posta privata, che il cappellano militare ha finora inoltrato per me, riuscendo ad eludere la censura.

Stamane alle 6:00, ultima messa prima di prendere posizione in Val Magnaboschi, dove pare, i nemici stiano preparando la controffensiva. L’euforia per l’avanzata, che probabilmente a casa avete respirata, verrà scuramente mitigata dalla notizia che ci è giunta poco fa. L’intero fronte ripiegherà su posizioni più difendibili poiché il paventato sfondamento non c’è stato. I russi avanzano nei nostri territori ad est dell’impero ed i migliori reggimenti dell’esercito sono già stati, in tutta fretta, inviati a proteggere i confini in Galizia. Quale destino attenda il mio reparto, ancora non lo so. I miei uomini non parlano da giorni ed ora sono intenti a preparare gli armamenti per la battaglia che ci attende. Dopo giorni di avanzate, adesso scaviamo trincee appena abbozzate e aspettiamo l’attacco.

Ho fatto preparare il mio bagaglio nel traino che oggi riparte per la piana di Vezzena e da lì, poi, per Trento. La breve licenza che dovevo avere ad aprile, parte da domani e se Dio vorrà, ci rivedremo. Ieri ho preso congedo, da nostra madre, con un ultimo foglio dall’Altopiano. Nello scriverti, voglio farlo anche con te. Non sono in grado però, questa volta di darti alcun consiglio o indicazione, come in questi anni ho sempre fatto, da buon fratello maggiore. Ho visto crollare, una dopo l’altra, tutte le mie certezze e riesco, ora, solo ad interrogarmi sulla erronea convinzione che avevo, nel sentirmi così forte e sicuro.

Chi ha visto la guerra sa a cosa mi riferisco.

Circa una settimana fa ho raggiunto, con un gruppo di prigionieri, un vicino posto di medicazione del Sovrano Ordine di Malta. Siamo giunti alle baracche alle due di notte e l’intero ospedaletto era in piena attività. Uomini stipati in ogni dove aspettavano le prime cure. Dalle barelle, poste serrate l’una affianco l’altra, salivano gemiti e lamenti penosi. Ho visto, con i miei occhi, medici che operavano da settanta ore di fila e fuori dalla sala asettica, un enorme cumulo di gambe e braccia, tutte amputate per il flemmone. Vicino l’ingresso, due giovani infermiere. Pulivano, in un ruscello, delle bende sudice, per poterle riutilizzare sui nuovi pazienti. Quelle povere ragazze, stanche morte e con i camici imbrattati del sangue dei soldati, parlavano di Vienna e di come, una volta tornate, volessero godere di una giornata intera solo per se stesse. Bere ad un caffè, ridere al sole, dormire in pace.

Troppo spesso, quando ero a casa, non ho saputo capire o vedere il bello che mi circondava. Ti ricordi quando zia Greta ci portava i dolci delle feste? Il vassoio in un lampo si svuotava, e con le tasche ricolme di caramelle ci lamentavamo di non averne abbastanza! E poi le corse sui prati, gremiti di fiori, le serate al capitello, in maggio, dopo il rosario, la pesca sul lago con la barca a remi, le gioie, le risate… Non lasciare che portino via tutto questo anche a te.

La vita vera va vissuta per costruire, non per distruggere.

Tuo fratello.

Lettera XV

13 giugno 1916

Zona di guerra

Padre, quando leggerai queste righe so che procurerò, a te e a tutti i nostri cari, un gran dolore. Spero di poterlo, anche solo in parte, lenire, con la sincerità delle mie parole, che voglio tu sappia fin d’ora, sgorgano dal profondo della mia anima, dopo giorni nei quali sono state soffocate.

Vorrei poterti dire che sto bene e che qui in qualche modo ce la caviamo. Normalmente l’avrei fatto per non arrecarvi pensieri e preoccupazioni, per confermarvi quanto le vostre benedizioni giungano a destinazione. Posso mentire a chiunque però, ma non a me stesso. So di essere arrivato al capolinea di questa mia avventura. Comunque finirà ne uscirò sconfitto.

E’ come se vivessi in due mondi paralleli. Nel primo sono un uomo, cresciuto con dei principi, supportato dalla famiglia, rigoroso osservatore delle norme del vivere comune. Leale, onesto e corretto, lucido e concreto. Nell’altro, soldato in battaglia, eseguo in ogni momento ordini e compio azioni in deciso contrasto con la mia istruzione ed educazione. Chi sono io dunque? Sono forse l’individuo che i dettami dell’infanzia hanno forgiato o piuttosto un vile, corruttibile e vigliacco? Inutile cercare risposte. La sostanza non cambia. Essi sapevano cosa ci avrebbe fatto questa guerra, sapevano e non hanno voluto evitare che intere generazioni finissero al macello.

Siamo stati ad un passo dalla vittoria, eppure adesso ci ritroviamo a retrocedere e il nostro destino sembra capovolgersi. Comanderò dunque il battaglione incaricato, in questo delicato settore, di coprire le truppe in marcia verso i monti alle nostre spalle. Poche centinaia di noi a bloccare un numero enorme di italiani. Svolgerò ancora una volta il mio dovere, ma credo che sarà l’ultimo atto, al quale mi presterò, di questa infelice farsa.

Lettera XV

13 giugno 1916

Zona di guerra

Padre, quando leggerai queste righe so che procurerò, a te e a tutti i nostri cari, un gran dolore. Spero di poterlo, anche solo in parte, lenire, con la sincerità delle mie parole, che voglio tu sappia fin d’ora, sgorgano dal profondo della mia anima, dopo giorni nei quali sono state soffocate.

Vorrei poterti dire che sto bene e che qui in qualche modo ce la caviamo. Normalmente l’avrei fatto per non arrecarvi pensieri e preoccupazioni, per confermarvi quanto le vostre benedizioni giungano a destinazione. Posso mentire a chiunque però, ma non a me stesso. So di essere arrivato al capolinea di questa mia avventura. Comunque finirà ne uscirò sconfitto.

E’ come se vivessi in due mondi paralleli. Nel primo sono un uomo, cresciuto con dei principi, supportato dalla famiglia, rigoroso osservatore delle norme del vivere comune. Leale, onesto e corretto, lucido e concreto. Nell’altro, soldato in battaglia, eseguo in ogni momento ordini e compio azioni in deciso contrasto con la mia istruzione ed educazione. Chi sono io dunque? Sono forse l’individuo che i dettami dell’infanzia hanno forgiato o piuttosto un vile, corruttibile e vigliacco? Inutile cercare risposte. La sostanza non cambia. Essi sapevano cosa ci avrebbe fatto questa guerra, sapevano e non hanno voluto evitare che intere generazioni finissero al macello.

Siamo stati ad un passo dalla vittoria, eppure adesso ci ritroviamo a retrocedere e il nostro destino sembra capovolgersi. Comanderò dunque il battaglione incaricato, in questo delicato settore, di coprire le truppe in marcia verso i monti alle nostre spalle. Poche centinaia di noi a bloccare un numero enorme di italiani. Svolgerò ancora una volta il mio dovere, ma credo che sarà l’ultimo atto, al quale mi presterò, di questa infelice farsa.

Lettera XVI

13 giugno 1916

Zona di guerra

Cinque minuti. Non chiedo di più.

Un tempo breve come un alito di vento, a cospetto di una vita intera. Sebbene io cerchi di non pensarci e custodisca il mio orologio nel taschino della giubba, le lancette non per questo si fermano. Par di udire, tra i boati dell’artiglieria, il delicato ticchettio del meccanismo.

Ogni secondo è marcato da un possibile evento catastrofico, ogni minuto è un traguardo insperato.

Il delirio dei sensi, da molte ore mi atterra e grava su di me il più nefasto dei presagi, dramma inevitabile, baratro incombente.

Cinque minuti sarebbero sufficienti a fermare questa follia, se potessi ridare un sorso di vita a queste anime aride e vuote. Automi nello sconforto del fatalismo, grigi assassini dietro la maschera della menzogna.

Non ho più piedi, nella morsa degli scarponi colmi di melma, non ho più gambe, nei calzoni invasi da zecche e pidocchi, non ho più stomaco ne cuore, sotto questa giacca violata da schegge e pallottole, crosta di fango e detriti, sotto quest’elmo, nessun pensiero, nessun desiderio.

Eppure il mio pugno è serrato, le mie mani cingono il fucile con tutte le forze.

Protesi del livore, mezzo primo, ed ultimo, della violenza.

Cinque minuti, non chiedo di più.

Quelli che al risveglio mia madre mi concedeva, prima di ritornare per destarmi dalla magia del sogno. Mi lasciavo allora catturare dal tepore delle coperte e dal candido profumo delle lenzuola lavate di fresco. Col corpo immobile, la mente già a vivere la giornata che mi attendeva, così vera, così sensata nella sua, allora apparente, normalità.

Penso ai cinque minuti che precedevano un esame a scuola oppure un appuntamento importante, come al lavoro. Quanta tensione, da giovane, dietro a quegli attimi di dubbio, nell’incertezza che spaventa e che da grandi lascia il posto alla noia. Non trovo tempo ora per sfuggire al destino, per gridare al mondo intero quanti morti vi siano dietro ad un assalto, quanto orrore vi sia oltre quel parapetto.

Mi ero imposto di non guardare più la piccola foto che conservo nel tascapane. In essa, tu ed io, siamo sorridenti al margine del lago. Era un pomeriggio dei tanti che con spensieratezza ho vissuto al tuo fianco…mai avrei potuto immaginare potesse essere l’ultimo concessoci. Vorrei rivivere gli ultimi cinque minuti, di quei baci e di quelle carezze, riavere la possibilità di dirti quanto ti ho amata e desiderata nello splendore dei tuoi vent’anni. Ti immagino, ancor più bella, al fianco di un altro uomo. Non sarò io a poterti vedere, al mattino, al risveglio, non sarò io al tuo braccio, nelle fotografie a venire. Già ora, il volto del ragazzo è mutato. Non mi riconosco nello specchietto da campo del mio taccuino . Giorno dopo giorno, i tratti del mio viso si sono sciupati ed i miei occhi, oggi, sarebbero per te, irriconoscibili. Essi parlano di una vita bruciata, dai gas, dalle mine, dalle veglie nel terrore, dal desiderio di porre fine, per sempre, a questo incubo.

Ieri un medico, stremato da ore interminabili di lavoro, tra invocazioni e urla di dolore, toltasi la mascherina, di fronte ad un soldato, morto durante l’operazione, ha proferito: “Almeno lui ce l’ha fatta…”.

Non potrò mai cancellare, dalla mia mente, quelle parole e quel volto distrutto dalla compassione. Non potrò mai perdonare chi ci ha privati della nostra giovinezza e ha costruito un “mondo nuovo” sulla montagna di cadaveri che qui marciscono tra le trincee. La natura potrà ricrescere e saprà coprire queste piaghe immonde. Noi no.  Tu, Eva,  il modo di dimenticarmi, invece, lo devi trovare. Perfino io ho scordato chi sono stato.

Adesso lasciatemi solo, lasciatemi contare quelli che non torneranno, quelli che volevano solo vivere e niente più. Quelli che ho visto ridere, alla partenza, nei vagoni dei treni, quelli che ho visto piangere di fronte alla tomba di un camerata caduto. Lasciateci soli, in questi nostri ultimi, cinque minuti.

Lettera XVI

13 giugno 1916

Zona di guerra

Cinque minuti. Non chiedo di più.

Un tempo breve come un alito di vento, a cospetto di una vita intera. Sebbene io cerchi di non pensarci e custodisca il mio orologio nel taschino della giubba, le lancette non per questo si fermano. Par di udire, tra i boati dell’artiglieria, il delicato ticchettio del meccanismo.

Ogni secondo è marcato da un possibile evento catastrofico, ogni minuto è un traguardo insperato.

Il delirio dei sensi, da molte ore mi atterra e grava su di me il più nefasto dei presagi, dramma inevitabile, baratro incombente.

Cinque minuti sarebbero sufficienti a fermare questa follia, se potessi ridare un sorso di vita a queste anime aride e vuote. Automi nello sconforto del fatalismo, grigi assassini dietro la maschera della menzogna.

Non ho più piedi, nella morsa degli scarponi colmi di melma, non ho più gambe, nei calzoni invasi da zecche e pidocchi, non ho più stomaco ne cuore, sotto questa giacca violata da schegge e pallottole, crosta di fango e detriti, sotto quest’elmo, nessun pensiero, nessun desiderio.

Eppure il mio pugno è serrato, le mie mani cingono il fucile con tutte le forze.

Protesi del livore, mezzo primo, ed ultimo, della violenza.

Cinque minuti, non chiedo di più.

Quelli che al risveglio mia madre mi concedeva, prima di ritornare per destarmi dalla magia del sogno. Mi lasciavo allora catturare dal tepore delle coperte e dal candido profumo delle lenzuola lavate di fresco. Col corpo immobile, la mente già a vivere la giornata che mi attendeva, così vera, così sensata nella sua, allora apparente, normalità.

Penso ai cinque minuti che precedevano un esame a scuola oppure un appuntamento importante, come al lavoro. Quanta tensione, da giovane, dietro a quegli attimi di dubbio, nell’incertezza che spaventa e che da grandi lascia il posto alla noia. Non trovo tempo ora per sfuggire al destino, per gridare al mondo intero quanti morti vi siano dietro ad un assalto, quanto orrore vi sia oltre quel parapetto.

Mi ero imposto di non guardare più la piccola foto che conservo nel tascapane. In essa, tu ed io, siamo sorridenti al margine del lago. Era un pomeriggio dei tanti che con spensieratezza ho vissuto al tuo fianco…mai avrei potuto immaginare potesse essere l’ultimo concessoci. Vorrei rivivere gli ultimi cinque minuti, di quei baci e di quelle carezze, riavere la possibilità di dirti quanto ti ho amata e desiderata nello splendore dei tuoi vent’anni. Ti immagino, ancor più bella, al fianco di un altro uomo. Non sarò io a poterti vedere, al mattino, al risveglio, non sarò io al tuo braccio, nelle fotografie a venire. Già ora, il volto del ragazzo è mutato. Non mi riconosco nello specchietto da campo del mio taccuino . Giorno dopo giorno, i tratti del mio viso si sono sciupati ed i miei occhi, oggi, sarebbero per te, irriconoscibili. Essi parlano di una vita bruciata, dai gas, dalle mine, dalle veglie nel terrore, dal desiderio di porre fine, per sempre, a questo incubo.

Ieri un medico, stremato da ore interminabili di lavoro, tra invocazioni e urla di dolore, toltasi la mascherina, di fronte ad un soldato, morto durante l’operazione, ha proferito: “Almeno lui ce l’ha fatta…”.

Non potrò mai cancellare, dalla mia mente, quelle parole e quel volto distrutto dalla compassione. Non potrò mai perdonare chi ci ha privati della nostra giovinezza e ha costruito un “mondo nuovo” sulla montagna di cadaveri che qui marciscono tra le trincee. La natura potrà ricrescere e saprà coprire queste piaghe immonde. Noi no.  Tu, Eva,  il modo di dimenticarmi, invece, lo devi trovare. Perfino io ho scordato chi sono stato.

Adesso lasciatemi solo, lasciatemi contare quelli che non torneranno, quelli che volevano solo vivere e niente più. Quelli che ho visto ridere, alla partenza, nei vagoni dei treni, quelli che ho visto piangere di fronte alla tomba di un camerata caduto. Lasciateci soli, in questi nostri ultimi, cinque minuti.

Il Giardino delle Menzogne XIII-XVI